Poteva essere mio figlio!
Potevo esserci io!
Spine nel fianco che hanno visto sanguinare le nostre coscienze in queste ultime settimane. Siamo stati spettatori quasi inermi di fronte ad escalation di violenza quasi gratuita (quella gratuità è in relazione ad un folle protagonista dell’azione). E in seguito a questa, un atteggiamento non solo inerme, bensì anche irrispettoso, com’ è stata la subitanea messa in condivisione sui social delle immagini e video della tragedia. Tragico per ciascuno di noi è stato ricordare che la morte esiste e ha il volto del tuo amico al bar di sabato sera o del tuo compagno di classe che, subito dopo il momento in cui ti lasci cadere nel vuoto, afferra la macchina fotografica per registrare tale gesto.
L’attenzione è rivolta ad alcuni avvenimenti che hanno sconcertato le coscienze della nostra provincia BAT: l’omicidio del giovane Claudio Lasala e la tragedia dell’adolescente studentessa del “Garrone” a Barletta e l’accoltellamento del giovane barese all’ex discoteca “Divinae follie” a Bisceglie. In questo articolo non ci poniamo l’arduo obiettivo di analizzare e confezionare cornici teoriche autorevoli su quanto accaduto, ma solo tentare di offrire una narrazione altra come comunità pensante che fa lutto insieme, insieme prova a domandarsi, a scrutarsi e a verificarsi. L’interrogativo di fondo che sentiamo animarci riguarda la sfera dei valori: quali valori stiamo trasmettendo alle giovani generazioni? Stiamo educando al valore della vita umana, del rispetto per sé e per l’altro/a e del sano divertimento che caratterizza l’età della giovinezza? Certo non possiamo addossare totalmente le responsabilità sul singolo individuo, ma neanche relativizzare eccessivamente le responsabilità della società e degli adulti, come se queste due entità fossero separate e autoescludentesi.
Parlando di giovani e delle loro connessioni, è imprescindibile fare un riferimento alla famiglia che in questi ultimi decenni sta demandando sempre di più il proprio ruolo educativo alle altre due agenzie educative: la scuola e la comunità religiosa. L’altro aspetto da considerare è questa fame spasmodica di condividere su internet ciò che facciamo o succede attorno. Questa voglia irrefrenabile di pubblicare foto e video personali per guadagnare visibilità e aumento di autostima. E tra questi, fotografie di tragedie come quella della studentessa del Garrone. Restando su quest’ultimo avvenimento, si può notare oltre al “mancato” soccorso delle persone presenti che fotografavano la drammatica scena con il telefonino, l’incolmabile desiderio di spettacolarizzazione di un evento che di per sé va “rispettato”, “accudito” e “protetto”. La tecnologia dovrebbe aiutarci a vivere meglio, mentre osserviamo che siamo guidati, quasi schiavizzati da questi oggetti. Ma siamo sicuri che non avere un profilo Facebook, Instagram, Snapchat sia come non vivere, non essere considerato come persona? La vita reale, la vita autentica è quella fuori da questi strumenti, che devono restare strumenti!
Il termine strumento deriva dal latino instrumentum, composto da instrúere che significa costruire, disporre (da cui istruire ed istruzione). Sembra invece che la persona sia diventata mero strumento e lo strumento persona. Adagiarsi sui social ci illude di essere al riparo dall’alienazione e di funzionare a colpi di stories acchiappalike. Non sarà forse che viviamo per bastarci, per soddisfarci di tutto e subito e poco importa se per farlo uccido la vita e la libertà dell’altro. Stiamo dimenticando una delle più grandi verità su cui si fonda l’umano: sono perché siamo. C’è una vecchia “diceria” che dice che persino Dio ha creato il mondo perché “stanco” della sua solitudine. Dio è relazione, Dio anela alla relazione, Dio vive di relazione, Dio vive nella relazione con ciascuno di noi. E allora dobbiamo mettere “occhiali” che ci facciano vedere la realtà per la sua estrema complessità, in questo garbuglio di io, noi, loro e gli altri, come recita il nuovo album del rapper caro alle tensioni e alle rivoluzioni giovanili, Marracash.
Io mi formo e pronuncio il mio nome, perché qualcuno mi ha chiamato per nome.
Io mi scopro perché sono stato scoperto.
Davanti a queste tragedie non abbiamo, quindi, risposte, ma possibilità di riscoprire la nostra umanità, di individuare i binari entro cui trovare la nostra essenza individuale e corale. Perché siamo connessi, siamo esseri relazionali e troviamo morte quando ci pensiamo autosufficienti, sostanza dentro un vuoto. Perché il vuoto, poi, ce lo costruiamo dentro. Sarà un Natale “ancora particolare” per tanti motivi. Sia un Natale di riflessione, di domande sul perché siamo sempre più costretti a commentare fatti di cronaca, tragedie familiari, femminicidi. Cerchiamo le risposte nei bambini, nei loro sguardi, nei loro sorrisi, nella loro voglia di fare cose nuove ogni giorno. Ciascun bambino ci ricordi il piccolo Gesù! D’altronde, abbiamo atteso un bambino per salvarci!
Federica Altizio federicaltizio@gmail.com Ruggiero Rutigliano illietogiullare@gmail.com