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Immagine del redattoreParrocchia Santissimo Crocifisso Barletta

<strong>IN OCCASIONE DELLA 43ª GIORNATA PER LA VITA</strong>

Intervista al prof. Filippo Maria Boscia, ginecologo e andrologo; professore di Fisiopatologia della riproduzione umana all’Università di Bari; già Direttore del Dipartimento Materno Infantile all’Ospedale Di Venere di Bari; consulente di ginecologia ed ostetricia all’Ospedale Santa Maria; presidente onorario della Società Italiana di Bioetica e dei Comitati Etici, attualmente presidente nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI).

La Giornata per la Vita, un’occasione preziosa per sensibilizzare tutti al valore della libertà, nel suo esercizio a servizio della VITA. Perché la Giornata per la VITA? Dopo circa 40 anni ha senso una Giornata per la Vita?

Certamente. Ricordiamo, la giornata per la vita è stata istituita all’indomani dell’approvazione della legge 194/78: norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza? In oltre quarant’anni, in realtà, di fronte a derive abortive ed eutanasiche, vien da chiedersi cosa si è fatto per garantire l’eppure dichiarata tutela della gravidanza? Davvero poco, per non dire niente! I Consultori familiari, punti di riferimento per le procedure propedeutiche, invece di aiutare la gestante, “vengono concepiti come strumenti di accompagnamento della donna verso l’aborto. Infatti, nella quotidianità, durante il colloquio obbligatorio, difficilmente vengono ricercate le cause che spingono la donna ad abortire e men che mai si tenta di trovare possibili rimedi. Il più delle volte si preferisce la soluzione più semplice: sentita la richiesta, la si asseconda con il rapido rilascio del certificato. Anche perché si è fatto poco per la promozione e lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali nel rispetto delle donne, che continuano ad essere vittime delle molteplici difficoltà che tuttora incontrano, non solo durante la maternità, ma anche nel sostegno all’infanzia.

La pandemia sta mettendo alla prova tutta la società e ci sta insegnando la vulnerabilità della nostra vita! Cosa può apprendere la società da un momento storico, incerto e difficile? Può essere l’occasione e l’opportunità per scoprire il senso della VITA?

Un bambino che nasce è un segno di speranza e la dimostrazione che la vita è sempre chiamata a prevalere sulle difficoltà e sulla morte. Non è scontato ribadire il valore della vita nascente ai tempi del Covid. La pandemia ci ha fatto scoprire tutti fragili, vulnerabili e ha messo in crisi il nostro delirio di onnipotenza, confermando che certi modelli di economia e di sviluppo generano scarti. È l’ora di elaborare una nuova grammatica di vita, una nuova antropologia, le cui parole sono ascolto, accoglienza, accompagnamento, discernimento, legalità e integrazione delle persone più marginali. Un’antropologia che faccia degli scartati le nuove pietre angolari con cui ricostruire una vita sociale, altra e alta. Oggi si sottolinea il diritto all’abbraccio. Lo proponiamo come ineludibile nuovo diritto per sviluppare pratiche di prossimità mantenendo relazioni, pur con necessarie precauzioni, da trasmettere attraverso il nostro volto, pur nascosto dalla mascherina. La vita che ci è sta donata ha un valore incommensurabile. È un bene prezioso di cui siamo responsabili per noi stessi e per gli altri.

L’aborto è sempre un dramma per la madre e per il bimbo mai nato. In Italia, i dati statistici evidenziano un calo degli aborti, con la crescita vertiginosa del consumo dei cosiddetti “contraccettivi d’emergenza”. E’ possibile fare chiarezza?

Il numero totale per anno di interruzioni di gravidanza in Italia nell’ultimo report del 2018 è di 76.328 aborti! Chi sottolinea il dato in diminuzione volontariamente ignora l’alto numero di pillole contraccettive post-coitale che vengono vendute (546.000 confezioni sempre nel 2018). Questo è l’aborto nascosto: “la pillola dei cinque giorni dopo”, non è un contraccettivo d’emergenza ma un vero e proprio aborto precoce; in liberalizzazione di vendita è molto diffuso tra le minorenni e senza più l’obbligo della ricetta medica da ottobre le vendite sono decollate. Tutto il processo, dall’assunzione della prima pillola all’espulsione del feto, è scaricato sulla donna. Uno scenario tristissimo di morte e solitudine, che rende certamente ancora più pesante la ferita psicologica che l’aborto volontario comunque reca alla donna.

La decisione dell’agenzia del farmaco di rendere disponibile senza ricetta per le minorenni la “pillola dei 5 giorni” continua a far discutere. La verità su questo farmaco? Quali rischi per le donne che ricorrono ai contraccettivi d’urgenza? Quali le conseguenze dal punto di vista fisico e psicologico per chi ricorre all’aborto farmacologico o chirurgico?

Non si può sottolineare che l’aborto farmacologico risulta dieci volte più pericoloso di quello chirurgico: si corrono rischi di emorragia, rischi infettivi, rischi di immunodepressione, di danno psicologico preesistente, che certamente ha a che fare con l’equilibrio psicofisico e con l’immaginario, rischio di vivere il dramma di una condizione di occulta emarginazione, consumata in assoluta solitudine nel corpo di una madre sola, dichiarata consenziente. L’embrione deve essere qualcuno, non può essere qualcosa – è un bambino, non è materiale! L’aborto anche se verbalmente ridotto all’asettica sigla IVG, acronimo di interruzione volontaria della gravidanza, è sempre l’uccisione di un essere umano che si trova nella fase prenatale della propria vita e solo una bieca ideologia può considerarlo un diritto, in realtà è solo una depenalizzazione, perché per la donna l’aborto è comunque una sconfitta e rivendicare l’aborto come diritto significa distruggere l’autentica cultura dei diritti e dei valori umani.

Papa Francesco parla del valore intangibile della vita umana, della necessità di riscrivere la “grammatica” del farsi carico e del prendersi cura della persona sofferente. Contro la cultura dello scarto, in che modo è possibile educare all’accoglienza della vita?

Contro la cultura dello scarto, la strada da percorrere è quella di promuovere con coraggio l’accoglienza della vita, dal concepimento alla fase terminale della vita. Il tema della cura dei malati, nelle fasi critiche e terminali della vita, chiama in causa il compito della Chiesa di riscrivere la grammatica del farsi carico e del prendersi cura della persona sofferente. L’esempio del Buon Samaritano insegna che è necessario convertire lo sguardo del cuore, perché molte volte chi guarda non vede. E’ necessario ri-disegnare “lo stile della prossimità e della condivisione”, “rendendo più umano il morire”. Un compito importante che oggi svolgono gli hospice per le cure palliative, dove i malati terminali vengono accompagnati con un qualificato sostegno medico, psicologico e spirituale, perché possano vivere con dignità, confortati dalla vicinanza delle persone care, la fase finale della loro vita terrena. Auspico che tali centri continuino ad essere luoghi nei quali si pratichi con impegno la terapia della dignità, alimentando così l’amore e il rispetto per la vita.

Francesca Leone professoressaleone@gmail.com

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