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Immagine del redattoreParrocchia Santissimo Crocifisso Barletta

Una certezza. Alcune domande.

Viaggio all’interno di alcune questioni riguardanti le norme in materia di consenso informato e di disposizione anticipate di trattamento.

LA NOTIZIA

La normativa in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, composta di 8 densi articoli, è stata approvata dal Senato della Repubblica, Giovedì 14 Dicembre con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astensioni.

L’urgenza di una legge su simile argomento si era resa ormai improcrastinabile per colmare quel vulnus legislativo, fin ad ora eluso da sentenze giudiziarie.

Tra i tanti casi che hanno fatto giurisprudenza sul caso, citeremo quello di Eluana Englaro (v. box) i cui procedimenti giuridici per ottenere l’autorizzazione a procedere all’interruzione della nutrizione artificiale hanno richiesto circa undici anni e sedici sentenze della magistratura italiana ed europea.

La battaglia ebbe inizio nel 1997 quando suo padre, Beppino Englaro, chiese e ottenne dal giudice l’autorizzazione a diventare tutore legale di Eluana. Nel 1999 chiese al tribunale di Lecco di interrompere la NA (nutrizione artificiale) di Eluana ormai stabilizzata in un uno stato vegetativo permanente. Nello stesso anno il tribunale respinse la richiesta e Beppino fece ricorso alla Corte d’Appello, che respinse nuovamente la richiesta.

Per la Corte c’era ancora un dibattito aperto su come considerare la NA per cui non era possibile definirla “al di là di ogni dubbio accanimento terapeutico”. Ma sarà proprio la Corte d’Appello di Milano, nel 2002, a sollecitare un intervento del legislatore per dirimere questioni similari.

Tuttavia il caso arrivò in Cassazione e dopo un continuo rimpiattino del caso tra Corte d’Appello e Cassazione, il 16 Ottobre 2007 la Cassazione si espresse escludendo la NA dalla definizione di accanimento terapeutico ma precisò che nel caso specifico, si poteva interrompere a patto che due circostanze fossero concomitanti: che la paziente fosse in stato vegetativo permanente e che la paziente avesse espresso la richiesta di non essere mantenuta in vita in maniera artificiale.

Così il caso fu rimandato alla Corte d’Appello di Milano che il 9 Luglio 2008 accolse il ricorso di Beppino e lo autorizzò ad interrompere la NA di Eluana. Eppure la storia non si risolse perché la procura di Milano con un esposto fece ricorso contro la decisione della Corte d’Appello e per la quarta volta il caso arrivò alla Corte di Cassazione che pronunziò la parola definitiva sul caso e respinse il ricorso della procura.

Questa volta la sentenza venne definita “storica” perché denunciò anche il vuoto legislativo e chiese al Parlamento leggi chiare per regolare i trattamenti come NA in casi come quelli di Eluana Englaro.

Eppure il 17 Settembre Camera e Senato presentarono due ricorsi diversi alla Corte Costituzionale per “conflitto di attribuzione tra poteri dello stato”, accusando la Corte di Cassazione di uno sconfinamento nel campo prettamente legislativo. Ma la Corte Costituzionale dichiarò inammissibile il ricorso e invitata il parlamento a legiferare sulla questione.

Beppino lasciò la regione Lombardia e fu costretto a portare Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine. Il servizio sanitario del Friuli non faceva più parte del SSN (dal 1996) per cui qui si poteva interrompere la NA perché per tutto il SSN, o convenzionato con esso, era vietato interrompere la NA per un “atto di indirizzo” emanato il 16 Dicembre da parte del ministro del Lavoro Sacconi. Nonostante la corsa contro il tempo del Governo Berlusconi di voler legiferare sul caso (dopo aver tentato un decreto legge del 7 Febbraio respinto dal Presidente Giorgio Napolitano), il 9 Febbraio la presidente della clinica diede l’annuncio della morte di Eluana.

LA LEGGE APPROVATA

Come ogni legge, anche questa normativa in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento (DAT), è frutto di dialogo intenso, di compromesso, di principi plurali e di valori differenti da provare a coniugare in poche righe. E questo lo si comprende sin dalle prime espressioni, quando il legislatore al comma 1 dell’art. 1 sottolinea la tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità. Espressioni dense ma che vanno riempite di significato. Per esempio il concetto di dignità. A quale dignità ci si riferisce?

Già questa domanda sarebbe foriera di divisioni persino tra coloro i quali hanno votato e difendono questa legge. Di fatti, per alcuni di questi non sarebbe dignitoso continuare a vivere affetti da alcune forme di morbosità altamente invalidanti per cui sarebbe giusto quel non meglio precisato diritto a morire dignitosamente. Per altri invece (sempre tra questi) la dignità non è un accessorio e nemmeno una proprietà transitoria e intermittente, quanto struttura implacabile della persona vivente che nessuna malattia può mai eliminare. Togli la vita e togli inesorabilmente anche la dignità. Per questo sarebbe più corretto incanalare le energie per offrire quegli strumenti atti a consentire una vita dignitosa, non per aggiungere giorni inutili alla vita ma per assicurare vita ai giorni che mancano.

Si dirà che la legge deve lecitamente prevedere il giusto pluralismo ma al tempo stesso risulta alquanto indispensabile smascherarsi e giocare a carte scoperte. Ognuno mettendo sul tavolo le proprie posizioni senza nascondersi dietro slogan facili.

E per fare questo non possiamo esimerci dal visionare l’intero fascicolo iter del DDL N. 2801 (di circa 3000 pagine) in modo da comprendere la cesellatura ordinata dalla scelta di alcuni vocaboli ed espressioni a scapito di altri, che lascia intravedere la filosofia e la prospettiva che soggiace a questa normativa.

A tal proposito, per esempio, nella legge non è stata accolta la richiesta di inserire al comma 1 dell’art. 1 che è vietata l’eutanasia. E questo è sintomatico. Sono state scelte espressioni meno dirompenti come quelle al comma 6 dell’art. 1 laddove si sottolinea che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.

Alla lettura dell’intero art. 1 della Legge, dove quasi in maniera ridondante si ripete in diversi modi che il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente allorché questo richieda il rifiuto di un trattamento sanitario” (comma 6), si comprende qual è il nucleo portante della normativa.

Eppure l’autodeterminazione era già prevista nel nostro ordinamento in quanto necessaria per ogni tipo di trattamento sanitario (salvo quelli previsti dalla legge). Questo era lapalissiano poiché già richiesto dalla Costituzione (2, 13, 32) così come dal Codice di Deontologia Medica (art. 53) ed infermieristica. La novità (?) che introduce la legge è che il medico è esentato da responsabilità civile e penale.

Il medico non può provocare la morte, ma potrà astenersi dall’applicare trattamenti (anche vitali) se il paziente lo avrà richiesto e stabilito nelle sue disposizioni in vario modo sottoscritte Niente da eccepire. Lo vuole il paziente e la legge tutela il medico.

Ma è ancora lecito poter dissentire e dire che questo (come diremo di seguito) può risultare tecnicamente un abbandono terapeutico legalizzato? E che nasconderebbe una forma di eutanasia passiva?

Perché per eutanasia si intende non solo un’azione (dunque di natura “commissiva”) ma anche l’omissione di un trattamento la cui interruzione procurerebbe la morte. Di fatti l’eutanasia si situa a livello delle intenzioni e dei metodi.

E quel medico che non vuole (intenzione) sospendere i trattamenti vitali, se dovesse trovarsi obbligato a realizzarlo (metodi), può esercitare l’obiezione di coscienza se in sede decisionale si dovesse rendere conto che un tale atto procurerebbe la morte ad una persona che invece potrebbe vivere dignitosamente ancora del tempo?

Uno degli emendamenti preclusi riguardava proprio l’affermare che “il medico non può tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento che abbiano chiaramente l’obiettivo di cagionare la morte del paziente e si astiene da trattamenti straordinari non proporzionati o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente”. Invece il medico “è tenuto al rispetto delle DAT” (comma 5, art. 4) e quindi non è consentita obiezione di coscienza da parte del personale medico.

È davvero significativo come un paese così fiero dei diritti civili (sacrosanti!), si trovi a ledere il diritto a quella libertà (inalienabile e fondamentale) di coscienza, per cui nessuno dovrebbe essere forzato ad agire contro, o detto altrimenti a nessuno dovrebbe essere impedito comportarsi in conformità ad essa.

Tuttavia il medico può disattenderle, in accordo col fiduciario “qualora appaiono palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente” (ivi), ma nel caso dovesse scaturire un conflitto tra il fiduciario ed il medico “la decisione sarà rimessa al giudice tutelare” (comma 5, art. 3).

Questo ripresenterà quel rischio di sentenze creative, che la legge attuale invece aveva l’ardire di risolvere?

Forse, ma perché giustamente ogni situazione sarà sempre diversa dalle altre e ciascuna avrà i propri caratteristici lineamenti medici e giuridici.

E poi tra l’equipe medica, che dovrebbe conoscere la reale situazione clinica del paziente, ed il giudice (che deciderà acquisendo successivamente l’intera cartella clinica e lasciandosi coadiuvare dagli stessi medici), perché dovremmo affidarci a quest’ultimo?

Anche in questo caso rileggersi il fascicolo dell’iter, offre il quadro chiaro di quanto stiamo delineando, perché tra le proposte non accolte vi era quella di considerare come ultima istanza non il giudice ma l’equipe medica, che si prendesse in scienza e coscienza la responsabilità clinica del caso. In tal modo, nel caso di un conflitto tra il fiduciario e il medico, la questione sarebbe stata sottoposta alla valutazione di un collegio medico composto da un medico legale, un anestesista rianimatore e il medico specialista della patologia, designati dalla direzione della struttura sanitaria di ricovero o dall’azienda sanitaria locale di competenza. E in caso di contrasti tra soggetti parimenti legittimati a esprimere il consenso al trattamento sanitario la decisione poteva essere autorizzata dal giudice tutelare e su parere del collegio medico.

Invece l’ago della bilancia della Legge è tutto spostato sull’asse dell’autodeterminazione del paziente e così l’alleanza terapeutica lascia il posto al paradigma contrattualistico-libertario, in cui l’autonomia del paziente è preminente mentre il principio di beneficenza da parte del medico è fortemente limitato.

Ovviamente la Legge bene fa a richiamare l’attenzione del medico a non scadere mai nell’accanimento terapeutico per cui dovrà astenersi “da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati” (comma 2, art. 2). Ovvero quei trattamenti “futili”: atti diagnostici, terapeutici (cfr. ventilatori e persino nutrizionali) sproporzionati.

Ma nella clinica medica uno dei principi fondamentali per stabilire la distanasia è l’appropriatezza che si identifica come un trattamento inappropriato, ovvero non dovuto e non più esigibile in quanto non produce più l’effetto per il quale il trattamento stesso è clinicamente indicato. Per cui sospendendo tali supporti, il paziente non muore per tale cessazione, ma per l’avanzamento della malattia. Diverso sarebbe invece il caso in cui il paziente dovesse morire per effetto diretto e dovuto all’interruzione del trattamento.

È questo che circoscrive la linea di demarcazione tra un atto medico doveroso e quindi eticamente corretto da un atto di accanimento terapeutico da evitare ad ogni costo. Ma al di là di ogni forma di paternalismo, l’asimmetria nella clinica esiste e dovrebbe essere l’equipe medica a stabilire con saggezza pratica e responsabilità il da farsi per il bene del paziente.

A PROPOSITO DELLA NUTRIZIONE ARTIFICIALE

Un altro elemento della Legge che ha fatto discutere è stato quello di considerare la NA come trattamento sanitario. La sensazione è che la discussione sia stata volutamente fatta scivolare su questo piano per nasconderne altri.

La NA è a tutti gli effetti un trattamento medico perché non è una misura ordinaria di assistenza. Non è però una terapia eziologica (perché non influisce direttamente sulle cause della malattia ma sulle sue conseguenze, come la malnutrizione o l’ipercatabolismo) e nemmeno propriamente sintomatica (perché non elimina un sintomo) ma risulta essere un trattamento sostitutivo (temporaneo o permanente) al deficit della funzione dell’alimentazione naturale quando questa risulta essere compromessa a causa di una condizione di malattia. Ovviamente come tutti i trattamenti sanitari ha controindicazioni ed effetti indesiderati.

Ma la NA può diventare un trattamento sproporzionato? Certo, ma non sempre. La SINPE (Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale) a tal proposito afferma che la NA va prescritta, attuata e monitorata secondo precisi protocolli atti ad assicurare l’appropriatezza, la sicurezza e l’efficacia del trattamento.

Tre elementi imprescindibili che non si possono disattendere e che non possono essere sacrificati sull’altare dell’autarchia.

Questo significa, per esempio, che sospendere la NA a chi vive in una fase terminale della malattia non è lo stesso che farlo in una fase pre- o agonica (laddove appunto non è più appropriato ed efficace un tale trattamento). La stessa Società asserisce come la NA “si dimostra efficace nel prolungare la sopravvivenza di pazienti affetti da patologie la cui prognosi, per quanto riguarda la sopravvivenza, è significativamente dipendente dal deterioramento dello stato di nutrizione e dall’insorgenza di una condizione di malnutrizione, a causa della preclusa o insufficiente alimentazione per via naturale. In questi casi, la NA va considerata come una vera e propria terapia salvavita”.

Allo stesso modo la NA risulterà futile quando gli organi del paziente deputati alla digestione e all’assorbimento così come al loro utilizzo, di queste sostanze, non saranno più in grado di farlo efficacemente motivo per cui non conferiscono nessun beneficio al paziente. Anzi il loro accumulo diventa motivo di ulteriori dolori. Ed è questo l’esempio del caso dell’iper-idratazione nel morente che potrebbe comportare dispnea ed edema polmonare. Chiaro che in queste, come in similari situazioni, la NA va interrotta altrimenti siamo in presenza di un chiaro accanimento terapeutico.

La stessa letteratura internazionale è concorde nel ritenere indicata la NA nel malato oncologico in fase avanzata quando vi è un’attesa di sopravvivenza di almeno tre mesi; invece più complessa risulta essere la valutazione della NA in casi di stato vegetativo permanente o di patologie neurologiche croniche degenerative.

La SINPE come regola generale offre un’indicazione chiara: “la decisione sul continuare o meno la NA di lunga durata preveda come punto fondamentale la valutazione dell’attesa di sopravvivenza, che notoriamente risente di una significativa variabilità interindividuale, per cui sarà opportuna una decisione medica caso per caso che dovrebbe essere presa in maniera collegiale”.

La normativa evidentemente non può soffermarsi su tutti e singoli i casi ma quando asserisce che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario, anche quando questo risulti necessario alla sua sopravvivenza (comma 5, art. 1) e quindi anche la NA, apre, magari anche senza volerlo, a varchi di eutanasia passiva. Legittimi se pensati sul fronte dell’autonomia individuale, dove ogni persona è libera di fare della propria vita ciò che desidera, ma non altrettanto comprensibile se non permette al medico di rifiutarsi di essere disponibile a tale atto.

La complessità dell’argomento necessitava un supplemento di confronto, senza scontri ideologici e fidandosi di chi si mette a servizio della salute.

Il dado è tratto ed ora la discussione si dovrebbe spostare sul versante culturale ma soprattutto antropologico. E quindi a livello pre-legislativo laddove si dovrebbe riscoprire anche la bellezza di una medicina, non asettica, spoglia e avalutativa (una specie di professione che non conosce valori sostanziali), ma che fa della relazione medico-paziente un’impalcatura di cura e di accompagnamento.

Il timore che una legge, fortemente voluta per arginare (giustamente) ogni forma di accanimento terapeutico, rischi di prestare il fianco a forme nascoste di suicidio medicalmente assistito, non è infondato.

E non sarebbe una bella vittoria. Al di là di ogni posizione. Soprattutto in una società così liberale come la nostra, in cui sembra davvero difficile incanalare la corsa ai diritti con quella dei doveri.

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